Le nubi corrono veloci sul cielo di Hiroshima. Il grigiore variegato annuncia il tifone che inesorabilmente si avvicina.
Sono passati tre giorni dalle commemorazioni in occasione del settantottesimo anniversario dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima.
Per pura combinazione, abbiamo la possibilità di visitare il sito, il memoriale ed il museo nel giorno dell’anniversario del bombardamento di Nagasaki, avvenuto il 9 agosto del 1945.
Si fa fatica a descrivere ciò che si prova. Le emozioni sono violente e si aggrovigliano in gola: dolore, frustrazione, vergogna, orrore.
I luoghi dove si sono consumate le tragedie della Storia sono molti nel mondo.
Tuttavia Hiroshima e Nagasaki sono gli unici posti in cui la forza nucleare sia stata mai usata e questo li rende memoriali di ciò che l’escalation del conflitto può generare.
Essere qui a Hiroshima, vedere il metallo fuso dall’esplosione, l’impronta dei corpi vaporizzati sul muro, gli oggetti di uso comune carbonizzati e le numerose testimonianze fotografiche, video e documentali, ci permette di entrare in contatto con l’assurdità della guerra.
La retorica ha buon gioco a dividere: qui gli Americani, lì i Giapponesi. Ma le sofferenze e le cicatrici della guerra, qui ancora visibili, vanno oltre le precise responsabilità politiche dei pochi e parlano del dolore inferto ai molti, inermi.
Sotto il cielo di Hiroshima siamo tutti figli, genitori, sposi, amici, fratelli e sorelle di qualcuno. Le divisioni e le differenze non esistono più.
Ed è anche per questo che nel cenotafio compare la scritta “Riposate in pace, non ripeteremo l’errore”.
Perché se è vero che le azioni del passato singolarmente, dipendono da determinati individui, il futuro dipende dall’impegno collettivo di costruire la pace appianando le divergenze e le disuguaglianze senza fare ricorso all’uso della forza.
Come gli orologi spazzati via dall’esplosione, anche il tempo qui si è fermato.
Sopra i muri da cui barre di acciaio escono ancora contorte dall’ A Dome si posano i corvi e il vociare del fiume di visitatori è coperto dalle cicale.
La natura ha ripreso il sopravvento nei parchi di una città ricostruita e la vita fluisce, potente, al di sopra e dentro le miserie umane, lasciando il suo silenzioso messaggio di speranza che toglie l’amaro accumulato nella nostra bocca chiusa dallo sdegno.
Ne “Le campane di Nagasaki”, Takeshi Paolo Nagai, un sopravvissuto alla bomba, scrive questo pensiero, col quale riprendiamo in silenzio il nostro viaggio, pensando al delicato equilibrio tra le nazioni in questo momento:
L’umanità sarà felice nell’era atomica, oppure misera? Di quest’arma a doppio taglio nascosta da Dio nell’universo ed ora scoperta dall’uomo, che farne? Un buon uso farebbe progredire a grandi passi la civiltà; un cattivo uso distruggerebbe il mondo. La decisione sta nel libero volere dell’uomo. Egli tiene in mano il proprio destino. Pensandoci, ci si sente assaliti dal terrore e, per conto mio, credo che un vero spirito religioso sia l’unica garanzia in questo campo.